Facétieux invité transatlantique

Après la rencontre avec l’imposant Nedim Gürsel, voici l’entrevue avec Joey Goebel. Petit contexte pour ceux qui ne le connaîtraient pas : Goebel est un écrivain américain originaire du Kentucky à l’humour mordant et à la satire délicieuse. Il adore tourner en dérision certaines traditions et valeurs de son pays. Malheureusement pour nous, ses livres ne sont pas encore très connus en Suisse romande ou dans le monde francophone mais il a d’ores et déjà réussi à conquérir les cœurs des germanophones. L’entretien se termine avec son guide ? son agent ? qui l’emporte au loin pour sa lecture.

Lecture qu’il n’aurait pas fallu manquer car l’écrivain sait laisser parler son humour et son talent de performer ! Il commence par aborder son expérience de professeur dans une high school du Kentucky et évoque une mésaventure personnelle quant au sens de la fameuse proposition Netflix and chill qu’il ne cessait de répéter à ses étudiants de 15 ans; je laisse aux non-initiés aller chercher son sens et rire du quiproquo ! Grâce à cette anecdote, nous constatons à quel point son métier, et plus particulièrement ce contact permanent avec la jeunesse est central dans sa vie et ses écrits. Le modérateur continue son interview et interroge Goebel sur la politique américaine. L’Américain expose clairement son opinion et montre encore une fois l’étendue de son talent : l’imitation de Trump est particulièrement bien réussie, il ne manque plus qu’une perruque.

Ensuite, de sa voix riche et profonde, Goebel enchaîne avec un extrait d’un de ses livres. Hypnotique, sa voix berce le public qui se prend au récit. Malheureusement, la lecture se termine trop rapidement sur les applaudissements de la foule. Nous aurions bien apprécié qu’il nous lise l’entièreté de son livre. Son jeune fils a bien de la chance d’avoir un tel père qui lui fait la lecture avant le coucher…

La salle se vide, le soleil baisse, mais le flux constant des badauds venus pour la 41ème édition des Journées Littéraires de Soleure ne faiblit pas même si la journée s’achève.

 

Marie Maury

Kreativ im Kollektiv

Der Wal ist ein grosses Tier. Ruhig. Langsam. Faszinierend.

Und bei Rebecca Gugger und Simon Röthlisberger kann er sogar fliegen. Die  Illustratorin und der Grafiker haben mit Ida und der fliegende Wal ein ganz besonderes Kinderbuch geschaffen, das definitiv auch Erwachsene in seinen farbintensiven Bann zieht.

Der Eintritt in diese anderen Welten beginnt um 16 Uhr in der Säulenhalle. Rebecca Gugger und Simon Röthlisberger lesen im Wechsel aus ihrem Kinderbuch vor, im Hintergrund ziehen die Illustrationen als Präsentation auf Leinwand vorbei. Die kleine Ida mit gelben Gummistiefeln und roten Haaren begibt sich eines Nachts mit dem fliegenden Wal-Koloss auf eine Reise der ganz besonderen Art. Sie erkunden Welten, in denen oben unten und unten oben ist, Welten des Nichts, in denen ein Sturm tobt, in denen Einsamkeit herrscht und in denen Ida Freunde fürs Leben findet.

Doch bis Ida auf ihre zauberhafte Reise gehen konnte, war es ein langer Weg, wie Rebecca Gugger und Simon Röthlisberger Schritt für Schritt erläutern. „Ein Herzenswunsch“ sei das Veröffentlichen eines eigenen Kinderbuches schon lange gewesen. Der Prozess habe viele Diskussionen, Nächte, Grübelstunden und eine zweiwöchige, in der Toskana abgeschottete Zeichenphase gefordert. Das Ergebnis kann sich eindeutig sehen lassen. Die wasserfarbenen Bilder wirken leicht und weisen dennoch eine beeindruckende Tiefe auf.

Die Rezeption von Kindergartengruppen sei stets überwältigend gewesen, erzählen sie, und auch wenn das Publikum in der Säulenhalle nicht vor schierem Unglauben ausgerufen hat, so waren die Augen mindestens genau so gross wie bei den Kindern. Faszinierend.

Intervista a Zerocalcare: tra parole e immagini

Michele Rech, in arte Zerocalcare: forse uno dei personaggi più attesi alle Giornate Letterarie di Soletta. Anche senza il forse.

Giovane fumettista italiano, nasce nel 1983 a Cortona, ma vive a Roma. Il suo talento è riconosciuto da numerosissimi premi e la sua notorietà si estende ben oltre i confini italiani. Lo stesso vale per il suo blog, su cui vengono pubblicati racconti brevi di natura autobiografica: https://www.zerocalcare.it/.

Il numero delle persone sedute nella Landhaussaal del Landhaus conferma le aspettative. Dopo la presentazione di Macerie prime – Sei mesi dopo (2018), graphic novel che fa seguito a Macerie prime (2017), Zerocalcare prende posto al tavolo degli autografi. Nessuno demorde: né le persone in fila in attesa di una dedica, né la mano dell’artista che ne confeziona una sempre personalizzata.

   
Il suo pennarello nero scorre su tutte le superficie che gli vengono sottoposte – pagine, borse, magliette – con tratto veloce e sicuro, per tre ore e mezzo, senza pausa.

Le domande che si potrebbero e si vorrebbero fare a Zerocalcare sono moltissime e diverse tra loro. Ma si scelgono due aspetti su cui concentrarsi: la lingua del fumetto e il rapporto tra l’immagine e la parola.

Come usi il dialetto e che ruolo ha nei tuoi fumetti? Hai già preso in considerazione l’idea di fare un fumetto solo in romanesco?

Alterno il dialetto all’italiano o in una stessa frase o in una didascalia in alto, come contrappunto al dialogo. A me interessa soprattutto lo switch tra l’italiano, quello definibile aulico, e l’italiano regionale, cioè il dialetto, romanesco nel mio caso. È proprio questa alternanza dei registri linguistici che permette di ottenere la comicità. La comicità, infatti, nasce proprio da questa opposizione linguistica. Fare un fumetto solo in dialetto, quindi, impedirebbe di ottenere, secondo me, questo effetto e farebbe sparire tutta la comicità.

Quale rapporto c’è per te e nei tuoi fumetti tra l’immagine e la parola? L’immagine traduce esattamente la parola, sottrae o aggiunge informazioni?

Partiamo dal fatto che anche le immagini, da sole, sanno raccontare una storia. Infatti, secondo me, un buon fumetto riesce ad essere letto e capito anche solo seguendo le immagini. Senza doverci pensare, mi sento di dire che la parola aggiunge informazioni, racconta sempre qualcosa in più. Non sono un virtuoso del disegno, ma posso dire che ho cura nelle recitazioni. I gesti, i movimenti del corpo – per esempio una mano che afferra un oggetto – le espressioni facciali dei personaggi, tutte cose queste, insomma, servono a far recitare i personaggi. Questa mia cura, cui tengo moltissimo, nella recitazione su carta si avvicina al modo di pensare e di fare del e nel cinema.

Visto che è emersa la parola „cinema“, la prossima domanda sorge spontanea. Nel 2017 è uscito il film La profezia dell’armadillo, tratto proprio dal tuo fumetto omonimo. Quale differenza c’è tra l’immagine su carta, apparentemente statica, dei tuoi fumetti e l’immagine dinamica e, soprattutto, cinematografica?

Sono due tipi diversi di immagini o, meglio, sono tipi di immagini con due visioni diverse. In ogni immagine c’è più di un punto di vista: dipende da chi scrive, da quale prospettiva si guarda, da quale angolazione è fatta l’inquadratura, da chi è la voce narrante, eccetera. La parola dei miei fumetti ha la mia visione, quella di Zerocalcare; la parola del film ha la visione di Emanuele Scaringi, il regista, che ha messo la sua visione sia sul piano narrativo, sia sul piano estetico. E va bene così, perché è lui il registra del film, io ho scritto solo la sceneggiatura. Ma se io facessi un cartone animato, sicuramente le immagini sarebbero più simili a me e alla mia voce.

La curiosità fa venire subito un’altra domanda legata all’esempio che hai fatto con il „se io facessi…“. Tra i tuoi progetti c’è anche quello di fare un film tutto tuo o un cartone animato?

Oh, hai voglia! (risponde in romanesco). Questo progetto c’è eccome, già da un po’ di tempo. Se tutto va bene, il cartone animato arriverà l’anno prossimo. I miei fumetti hanno sempre una colonna sonora, ma il cartone animato mi permetterebbe di inserire ancora più elementi: fare avvicinare, ancora di più, il mio punto di vista al pubblico e di dare la mia voce. Nel fumetto c’è spazio per l’interpretazione: il lettore, per esempio, può immaginare cosa succede tra una scena e l’altra, quali siano i passaggi, eccetera; nel cartone animato, invece, tutto è già fornito, da me. Sono molto curioso di vedere cosa uscirà e come verrà recepito dal pubblico.

Si ringrazia Michele Foschini, editore della BAO Publishing, e si fa un ringraziamento speciale a Zerocalcare per aver reso possibile questa intervista!

Paradiesvögel auf der Suche nach dem Paradies

Unkonventionelles Styling, unkonventionelle Texte, unkonventionelle Musik und ein unkonventioneller Auftritt. Das ist das erfrischende Sprechkonzert des Duos Loretta Shapiro, bestehend aus Katja Brunner und Sophie Aeberli. Katja Brunner studierte literarisches Schreiben in Biel und szenisches Schreiben in Berlin. Ihre Kollegin Sophie Aeberli ist Pianistin und Performerin. Die beiden stechen heraus, heben sich von der Masse ab, lassen sich schwer kategorisieren und sind darüber hinaus sehr sympathisch. Aeberli trägt blauen Lippenstift und eher alternative Kleidung. Brunner eine knallrote Merida-Mähne und mehrere Statement-Ketten. Ein Statement ist auch ihr Sprechkonzert. 

Es ist ein buntes, wildes und ziemlich schräges Gesamtkunstwerk, das uns die Beiden präsentieren. Sie sprengen die Erwartungen gleich zu Beginn und brechen bereits beim Eintreten in den Kinosaal das erste Tabu. Die Gäste werden nämlich am Eingang mit einer Blume ausgestattet und mit den Worten „mis herzliche Biileid“ begrüsst. Es folgt der Abstieg in makabere Thematiken. Richtig traurig wird’s dann aber doch nicht. Eher lustig und warmherzig. Mit viel Witz, starker Sprache und einnehmender Performance unterhalten sie auf allen Ebenen und regen zum Nachdenken an. 

Der Tod ist ein wiederkehrendes Motiv in den jeweils etwa 2-6 minütigen Stücken, deren Reihenfolge der Zufall bestimmt. Das nächste Stück wird nämlich jeweils von jemandem aus dem Publikum aus einer Wollmütze gezogen. Es geht um Mütter, die sich fragen, aus welchem „hässlichen Teil der Gehirnlandschaft“ ihrem jugendlichen Sohn die Idee zugelaufen ist, sich umzubringen. Um hungrige Maden, die sich darüber beschweren, dass Menschen einfach nicht mehr sterben. Oder um die Frage, wie so ein grosser Opa in so eine kleine Urne passt. 

So allgegenwärtig wie der Tod ist auch die Frage nach der Zukunft. Was kann man denn unseren Kindern noch bieten, in einer Welt mit „schäbigen Perspektiven“ wo uns bald „nur noch die Schaben bleiben“? In einer digitalisierten, rationalisierten, oberflächlichen, schein-harmonischen Welt, in der es Sex-Roboter gibt, die lernen wollen, was Liebe heisst. Und in der man sich die Genitalien chirurgisch verschönern kann: Es gibt vierzehn verschiedene Typen von Schamlippen zur Auswahl. Hinter den oft konfusen Geschichten steckt nicht nur viel Galgenhumor, sondern auch eine grosse Portion Gesellschaftskritik.

Die Texte von Loretta Shapiro sind teilweise derb, sie strotzen vor Ehrlichkeit und Unverblümtheit und machen die Sprache spürbar. Durch die experimentelle musikalische Untermalung wird sie noch fassbarer. Die verschiedenen Stücke könnten nicht unterschiedlicher sein. Von lateinischer Gregorianik über stimmverzerrte Roboter-Philosophie zu derartig schnell vorgetragenem Sprechgesang, dass man ihn kaum versteht. Man muss auch nicht alles sofort verstehen. Loretta Shapiro gehen einem definitiv nicht so schnell aus dem Sinn.

Das Wort «Eskapismus» hat sie schon mit 7 gelernt

Nell Zink spricht richtig gut Deutsch mit nur leichtem Akzent. Die Amerikanerin ist schon viel in der Welt herumgekommen, momentan lebt sie in Deutschland. Trotzdem liest an diesem Morgen ein Profi für sie die Textpassagen. Günther Baumgarten erweckt mit seiner sonoren Stimme die Geschichte zum Leben, die an einem College in Virginia in den 60er Jahren spielt. Bereits im ersten Textauszug geht es mit den Protagonisten richtig zur Sache: Der schwule Literaturprofessor und Dichter Lee begibt sich mit der Studentin Peggy ins Kanu. Eine ungewöhnliche Liebesgeschichte bzw. «Sexgeschichte», wie Zink sogleich präzisiert, beginnt.

Ich frage mich, wie die anzüglichen Beschreibungen aus Zinks Mund wohl klingen würden, in ihrem melodiösen kalifornischen Englisch. Gewiss wäre dies eine ganz andere Lese- bzw. Zuhörererfahrung. Die verschwundene Welt der 60er Jahre wieder aufleben zu lassen, das sei Zinks Absicht gewesen. Die Gesellschaft sei damals noch ganz anders gewesen. Sie selbst sei absolut nonkonformistisch erzogen worden und habe das Wort «Eskapismus» bereits mit Sieben gelernt. Das kann man fast nicht glauben, wenn man sich solche Textpassagen anhört.

Schade, dass das Gespräch allzu oft in Biographisches abdriftet; gerne hätte ich noch etwas mehr über Peggys Geschichte erfahren. Interessant ist auch die Frage, wieso der Deutsche Rohwolt Verlag den ursprünglichen Titel von Zinks Roman «Mislaid» mit «Virginia» übersetzt hat. «Mislaid» bedeutet auf Deutsch schliesslich so viel wie «verlegt (werden)». Schade, dass die vielen Bedeutungsmöglichkeiten, die in diesem Titel mitschwingen, nicht in die deutsche Übersetzung mit eingeflossen sind.  Ist Peggy wohl die vom Leben «Verlegte» und im Leben «verloren gegangene» Figur dieser schwierigen Familiengeschichte?

Solhora

Soleure. Au Solheure café. Ou sol hora en espagnol, c’est-à-dire l’heure, ou le temps du soleil. Car du soleil, il y en avait à Soleure ! Une atmosphère d’été rouge et bleu planait sur la petite ville alémanique en ce vendredi 31 mai 2019.

Bleu, d’abord, comme la couleur pure de l’Aar, fraîche et désaltérant la vue. Charme, et sans doute fierté de Soleure.

Rouge ensuite, comme le thermomètre ! Celui-ci s’est arraché au-dessus des 25, voire des 30 degrés Celsius, après un printemps très frais. Le premier vrai coup de chaud de la saison, et ça tombe à pic pour l’ouverture de cet heureux Festival des Journées littéraires de Soleure !

Orange aussi. Comme les lunettes d’Odile Cornuz qui, lors d’une brève lecture l’après-midi, en extérieur, nous a fait découvrir sa nouvelle prose poétique, Ma ralentie (2018). Fascinant ! Rythme et courbes de l’œuvre (déjà soulignés dans un autre article publié plus tôt) nous rappellent les méandres, les accélérations et les ralentis de la Sarine, qui nous ramène au fleuve sémantique et à la poésie de l’Aar. « Mais que chaud ! » comme disait ma grand-mère bédjuasse. Je ne pouvais m’empêcher de penser que, derrière leur regard vif et amusé, les yeux de la pauvre Odile devaient souffrir de parcourir des pages ultraviolettes, rendues telles par « la rigueur du soleil » – autre expression d’une arrière-grand-tante bédjuasse. Même les bras de l’une de mes collègues, pourtant habitués aux grandes chaleurs, devenaient comme deux toasts à point qu’elle tentait désespérément de cacher sous sa veste en boule.

Incolore encore – « Trop de transparence tue la transparence », nous confiera le lendemain Daniel Sangsue. Couleur sans couleur des spectres. Les spectres de Sangsue, ses compagnons de voyage, ses amis qu’il traîne partout avec lui, dans ses bagages comme dans ses livres, ces ectoplasmes qui le perturbent parfois, mais qui le suivent sans doute avec amusement. Et nous avons rencontré ce doux chasseur de fantômes à midi déjà, en partageant un repas avec lui, puis lors d’une lecture de son Journal d’un amateur de fantômes (2018) – à l’intérieur cette fois-ci. Mais les esprits n’étaient pas le seul atout que Sangsue avait dans sa manche ; il avait aussi l’esprit, celui de David Collin en l’occurrence, qui, dans un dialogue intelligemment construit, mais non moins improvisé, intervenait toujours au moment juste, à la seconde exacte, respectant les silences les plus éloquents, pour glisser une remarque ou une question pertinente et juteuse à souhait ! Expert de la radio, et ça se voit ; sacré malin, sacré Collin, va ! Aussi, au fil de ce dialogue très chaleureux, très amical, nous avons découvert que les histoires d’outre-tombe allaient bien souvent de pair avec la notion de fantastique, au sens de Todorov. Une histoire de fantômes, c’est avant tout l’histoire d’une hésitation entre une explication rationnelle – mais souvent insatisfaisante, comme l’a souligné David Collin – et une explication irrationnelle. Mais les histoires de revenants, ce sont aussi des histoires de rencontres avec des personnes connues de notre passé, avec Gilbert Sangsue par exemple, le père de Daniel, avec Madame Breton, la femme de l’écrivain célèbre, ou encore avec un ancien camarade chinois en mobilité à Rennes, retrouvé à la Fudan University de Shanghai, trente ans plus tard, et tout à fait par hasard !

Vert, comme le Bonsaï (2018) de Baptiste Gaillard, qui finalement non, n’est pas un livre de jardinage.

Vert jauni, comme l’argent de la surconsommation, qui nous épuise et s’épuise. Rinny Gremaud en connaît un rayon, et même plusieurs ! ayant parcouru de long en large des giant malls, centres commerciaux aux dimensions invraisemblables. L’écrivaine et journaliste suisse, aux origines sud-coréennes, nous en offre un aperçu critique dans Un monde en toc (2018).

Deep purple également. Comme la profonde réflexion qu’a menée Douna Loup. D’abord pour nous proposer son Déployer (2019) dans une forme originale en sept carnets. Ensuite pour nous le faire découvrir au travers de lectures revêtant elles aussi une forme peu commune, dans le monde littéraire. Quelle forme ? Aidée d’un looper – cet instrument électronique si chouchouté dans l’univers de la beatbox –, Douna Loup nous a donné une véritable performance, créant un univers de sons simples, mais si percutants, me rappelant des chants de gorge inuits.

Multicolore. Soleure, ou solhora, c’était tout ça à la fois, en ce vendredi 31 mai. Et les jours qui suivront ne s’annoncent pas des moindres ! En Valais, ce matin de 1er juin, j’ai entendu dire qu’aujourd’hui serait la journée la plus chaude depuis le début de l’année 2019, et on peut légitimement penser que ce sera aussi le cas à Soleure, où la température était déjà si élevée la veille ! Quelques heures plus tard, arrivé dans la cité du livre, j’observe des pigeons ramiers profitant des ombres d’un parc, deux corbeaux se désaltérant dans une fontaine, et un foulque macroule nageant seul dans l’Aar qui reflète les rayons du soleil. Ce sera décidément une chouette journée !

Je vous laisse, je vais écouter ma nouvelle amie Odile Cornuz, qui nous propose aujourd’hui une lecture plus approfondie de sa ralentie, cette fois-ci à l’intérieur, bouffée d’air frais !

 

Éric Bonvin

À Soleure, des rescapés ?

Dépossédée de ses bagages après un transit malheureux, Rinny Gremaud échoue à Edmonton, comme « une rescapée » écrit-elle. Pourquoi avoir choisi cette ville américaine comme première escale à son tour du monde ? (tour dont il faut préciser le but : parcourir les malls de notre société de consommation, ces nouveaux temples de béton et de verre, reproduits en série, où se concentrent partout les mêmes franchises). En fait, c’est dans cette ville de l’Alberta que se situe le plus vieux de ces mégacentres commerciaux, grand comme 68 terrains de football.

Ce mot, « rescapé » revient à deux fois dans l’extrait que nous lit Rinny Gremaud. Elle ne le dit pas, mais l’histoire de ce terme n’est pas sans lien avec ce monde dont elle parle et qu’elle accuse, le nôtre, « qui se rétrécit par son uniformisation » : il apparaît dans la presse dans les premières années du 20ème siècle, lorsque la catastrophe minière de Courrières fait plus d’un millier de victimes dans le nord de la France. Ce sont donc ceux qui s’en sont sortis qui sont les premiers rescapés des ravages de l’industrialisation.

Rinny Gremaud déconstruit ensuite le voyage et ses raisons. On ne voyagerait plus pour se confronter à une altérité : dans un monde globalisé où l’information est à portée de clics, toutes ces images de l’inconnu, on les a déjà rencontrées. Le voyage consisterait plutôt pour elle en un moyen de « disparaître ». Rescapée à la faveur d’une disparition ? Serait-ce que cet éloignement spatial lui permettrait au moins de s’éloigner de l’œil du cyclone où elle vit au quotidien ?

Prendre cette distance et réaliser la difficulté toujours plus grande de se projeter physiquement dans un ailleurs qui s’abîme irrémédiablement, c’est prendre conscience à quel point l’on a été délestés de nos bagages et livrés nus à des structures urbanistiques qui cachent de moins en moins une ordonnance régie par les lois économiques. C’est être conscient, au moins un instant, de son statut de rescapé, avant de replonger dans l’œil du monstre. Combien de rescapés dans cette foule venue écouter Rinny Gremaud ?

Il restera néanmoins toujours ces thuriféraires du développement économique, à la vue étroite, défendant qu’on ne meurt plus dans les mines, grâce au progrès, aujourd’hui. – « Chez nous, vous dites ? »

 

Jonas Widmer

«Die menschliche Phantasie ist armselig»

Die erste Lesung des Tages beginnt mit einem Verlust: Judith Schalansky beteuert, um diese Tageszeit hätte sie unter normalen Umständen sicher schon den fünften Kaffee getrunken. Doch dafür liest sie für uns heute im gut besetzten Landhaussaal aus ihrem neuen Verzeichnis einiger Verluste. Das Sammelsurium verschiedener Texte handelt nämlich vom Verschwinden – genauer gesagt, von Tieren, Orten, Legenden oder sonstigen Dingen, die irgendwann einmal vom Erdboden verschluckt worden sind. Wie Schalansky selber formuliert, holen ihre Texte diese Dinge narrativ wieder in die Gegenwart zurück, machen das Abwesende im Text wieder anwesend.

Ein lustiger Zufall ist es daher, dass die Kurzgeschichte, die sie uns vorliest, im Prinzip auch das Verzeichnis literarischen Verlustes ist: Sie handelt von einer Schriftstellerin, die sich in eine Hütte ins Wallis zurückzieht, um dort ein Monsterverzeichnis anzufertigen. Schalansky erzählt damit von ihrem eigenen, gescheiterten Schreibprojekt. Ja, sie hält sich wirklich an ihr Programm. Ihr Schreibprozess illustriert genau das, was ihre Texte inhaltlich tun: Sie machen Vergangenes, Verschwundenes wieder präsent. Doch wie kam sie ursprünglich auf die Idee, ein Monsterverzeichnis zu schreiben? Schalansky ist vom «bürokratischen» Schreibstil fasziniert. Genauso auch von der Idee des Archivs. Das fange schon bei einfachen To-do-Listen im Alltag an: Man schreibe doch etwas auf, archiviere es also, um es nicht zu vergessen. Doch wenn man sich das genauer überlege, sei es doch gerade andersherum: Man schreibe etwas auf, damit man es vergessen könne. Und diese entstandene Leerstelle gelte es dann später wieder poetisch zu füllen. «Die Liste ist eigentlich der Beginn von Poesie.» Ein interessanter und durchaus provokanter Standpunkt, finde ich, in Anbetracht all der Schreiberlinge, die um mich herum im Publikum sitzen.

Man merkt: Auf gewisse Weise ist Judith Schalansky auch Naturwissenschaftlerin. Dazu passt, dass sie alle Illustrationen und vor allem die Karten in ihren Büchern selber katalogisiert und zeichnet. Auch hat sie selber eine sehr genaue Deutung ihrer Texte im Kopf. Bei ihren anfänglichen Recherchen zum Monsterverzeichnis sei sie zudem zur Erkenntnis gelangt, dass die Evolutionsgeschichte viel reichhaltiger sei als die menschliche Phantasie. Wer schliesslich ein Einhorn als «übersetztes Rhinozeros» abzustempeln versucht, kann ja nicht viel Phantasie haben.

Das findet Anstoss, im Publikum gibt es einige Lacher. Judith Schalansky jedenfalls findet ihre poetische Inspiration in ebendieser Evolution.

Träume und andere alltägliche Dinge

Viele gutgelaunt glucksende Menschen sammeln sich im Kino im Uferbau, um Michelle Steinbecks Lesung aus ihrem Gedichtband Eingesperrte Vögel singen mehr zu lauschen. Ihre Verse haben eine «Treffsicherheit, die immer wieder sprachlos macht». Damit lässt Pablo Haller, der selber schreibend und performend tätig ist und hier durch das Gespräch führt, den Lockvogel gleich zu Beginn aus dem Käfig. Michelle Steinbeck meint, sie wäre wohl auch sprachlos, wenn sie jetzt nicht lesen würde. Sie schlägt eine Reise quer durchs Buch vor, und ich nehme die Einladung gerne an.

Sie beginnt zu lesen, von ihren Liebesgedichten, wie sie später durchblicken lässt. Ihre Gedichte haben etwas angenehm Unemotionales, Ungekünsteltes. Nach der Liebe kämen nun die Babies, meint sie. Es folgen traumartige Gedichte und Alltagsüberlegungen.

Sonntag

sie bringt das baby vorbei
es schreit krebsroter kopf
dann trinkt es – pappsatt
die zunge hängt ihm aus dem mund so satt

er surft im internet nach der fad und
er googelt sich selber und
er pult an seinem fusspilz

ich grüble an meiner hausaufgabe
kann man wissen was andere fühlen?

«Wollen wir mal ein bisschen reden?», fragt sie ihren Moderator nach einigen Gedichten freundlich – und stellt auf liebenswerte Art und Weise klar, wer hier durchs Gespräch führt. Also reden sie. Darüber, wie sie früher sicher war, dass sie keine Lyrik schreiben würde und sich nach dem ersten, in einem Weihnachtsband der Berner Kunsthochschule publizierten Gedicht geschworen habe, nie wieder ein Gedicht zu veröffentlichen. Darüber, wie sie es dann doch getan hat. Und darüber, wie sie über das Tagebuch- und Traumbuchschreiben zu ihren Gedichten kommt. Das Notieren der Träume sei aber auch mühsam. Manchmal passiere es, dass sie schon im Traum ans Aufschreiben denke und deshalb dann nicht mehr viel anderes träume.

Ihre Gedichte bleiben aber nicht im Traum stehen und sie selbst wirkt sehr wach und freudig angekommen im Gebiet der Lyrik, als sie bemerkt, dass die Form der Lyrik ihr die Freiheit gebe, ihr nahe stehende Dinge leichter zu verarbeiten. So kann sie auch mit Gefühlen arbeiten, ohne dass es je sentimental klingt. Sie verrät, warum sie dieses Jahr zu den Solothurner Literaturtagen eingeladen wurde: wegen einem ihrer Gedichte. Darin schreibt sie, dass sie die Solothurner Literaturtage hasse, weil sie sich die Birne verbrannt habe und weil sie nicht eingeladen sei, aber alle anderen schon. Et la voilà, hier ist sie also in Solothurn, an ihren verhassten Literaturtagen. Eine gute Entscheidung.

Die Poesiereise nimmt ihr Ende in italienisch angehauchten Fernbeziehungs-Gedichten, von denen eines nach einem italienischen Lied benannt ist: «Ich nehm ein Gelato mit deinem Geschmack». Auf Deutsch klinge das wirklich hässlich, meint sie. Und um den Hauch von Kitsch ein für allemal zu vertreiben, kommt sie auf die Tauben zu sprechen, die sie in Rom am Bahnhof beobachtet: «Am Boden immer so bemitleidenswert, sind sie dort oben ziemliche Player.»

Nach der Lesung schlägt mir das Licht, das die Aare vor dem Kino im Uferbau eifrig bescheint, ins Gesicht und holt mich noch stärker auf den Boden der Realität zurück. Das war eine Traum- und Alltagsreise der besonderen Art.

„Eine Gegend für Schlösser“

Eben noch hat Judith Schalansky von ihrem aufgegebenen Projekt eines Ungeheuer-Buchs erzählt – die menschliche Fantasie hatte sich gegenüber der Formenvielfalt der Evolution kümmerlich unterlegen gezeigt – , da setzt Sabine Gisin im Stadttheater mit einer eben solchen Sagenwelt ein. Die Leere sei das Schlimmste, darin sind sich die arrivierte Autorin und die Debütantin einig. Was seien schon ein paar Mischwesen mit faltiger Flügelhaut gegen den horror vacui?

In Sabine Gisins erstem Roman mit dem kryptischen Titel Teneber vid trägt das schlimmste Ungeheuer in der selbstgemachten Sagenwelt des Vaters der Hauptfigur eben diesen Namen. Am schlimmsten deshalb, weil es die Leere verkörpert, die alles einzusaugen droht. Benennung schafft Halt, ebenso der alleinerziehende Vater: Zeltend am Fluss, kochend am Feuer, Steinskulpturen bauend, deren Passung seine erfahrenen Hände erspüren.

Diese archaische, aber vertraute Welt, die an Gisins Verlagskollegin Noëmi Lerch erinnert, ist Geschichte, als das namenlose „Mädchen“ seinen Gang in die „Stadt“ antritt. Auf dem Weg zum „Schloss“ wird es von einem Mann auf der Herrentoilette sexuell missbraucht, ohne das Geschehen anders als phänomenologisch deuten zu können. In der Folge entwickelt sich eine éducation sentimentale, die zwischen den drei Codes des Märchenhaften, des Surrealen und einer artifiziellen, aber grundsätzlich aufs Realistische zielenden Kinderperspektive changiert. Viertens und nicht ganz zwingend schalten sich gelegentlich metasprachliche „Splitter“ dazwischen.

Das mag den einen oder die anderen an einen riskanten Zwitter aus Julia Webers und Michelle Steinbecks  vielbeachteten Debütromanen erinnern, doch findet Sabine Gisin, die lang und unbeirrt liest, mit zunehmender Textdauer zu einer sehr eigenen Erzählstimme. Dass es ihr dabei zugleich um poetische Funken und hermeneutische Komplexität geht, scheint einige Zuhörerinnen und Zuhörer zu überfordern und stellt tatsächlich ein Wagnis des Textes da: Die zunehmend auf die Perspektive des Mädchens zugeschriebene Handlung lebt von der Spannung zwischen den von struktureller und sexueller Gewalt geprägten Widerfahrnissen und den staunend-poetischen Reaktionen des Mädchens: „Meine Läden sollen weit offen sein.“

Der einst genuin literarischen Aufgabe, im Schönen des Schrecklichen Anfang und vice versa durchscheinen zu sehen, muss man sich hier als Leserin, als Leser schon stellen wollen. Wird das Buchjahr in Kürze und in aller Ausführlichkeit tun. Wer Sabine Gisin unterdessen als psychologisch und poetologisch versierte junge Autorin kennenlernen will, kann gerne auch mit ihrer formvollendeten Kurzgeschichte „Bob“ einsteigen. Die trug sie vor einigen Jahren beim renommierten Berliner „Open Mike“ vor, und zumindest ich habe seitdem auf weitere Texte gewartet. On verra, wir bleiben dran.