Soletta: luogo ameno e letterario

La 41esima edizione delle Giornate Letterarie di Soletta, svoltasi da venerdì 31 maggio a domenica 2 giugno, ha proposto un programma di grande varietà, sia linguistica, sia tematica: quattro lingue (francese, italiano, tedesco, romancio) e temi che spaziano dalla letteratura alla cultura, dalla geografia alla politica, dalla storia all’attualità… Più di settanta autori e autrici come protagonisti, un pubblico gremito come co-protagonista e un’ospite d’eccezione: la Natura. Tre giorni illuminati dai raggi del sole e dalla vivacità degli incontri letterari.

Seduta in riva all’Aar, con il sole che si rifletteva sul mio taccuino, rare brezze di vento che alzavano i ciuffi ribelli dei miei capelli, il mio sguardo si è posato su dei piccoli fiori gialli che cercavano di farsi breccia tra le righe del cemento. Mi sono così ritrovata a riflettere sul fatto che nella Natura ci sono i segni e l’idea di resistenza, poiché, nonostante tutto, essa continua ad esserci e a manifestarsi. L’idea di resistenza c’è anche nelle parole – io credo – anche nelle riflessioni fatte e ascoltate degli autori e autrici delle Giornate Letterarie di Soletta. Così come i nostri piedi lasciano impronte nella Natura, anche le nostre parole lasciano tracce nello spazio e per questo anche le riflessioni, di tutti e di tutte, hanno lasciato segni a Soletta.

Il rapporto tra essere umano e Natura, nel bene o nel male, cambia con il tempo, e lo stesso vale per le definizioni o le etichette, letterarie e non. Ormai lo sappiamo, quando si agitano questioni di linguaggio c’è qualche sommovimento sociale in atto. Sintonizzandoci sulla frequenza del nostro presente, ci è facile percepire che stiamo vivendo in un’epoca di cambiamenti sociali. E nella nostra società la capacità più difficile ma fondamentale da acquisire è proprio quella di osservare: saper vedere la Natura, o meglio, tutto ciò che ci circonda. Ma non basta solo vedere, bisogna anche saper guardare e, ancora, bisogna saper scegliere dove indirizzare lo sguardo. L’atto stesso di scrivere richiede la capacità di saper fare una scelta, una selezione di quanto visto, di saper decidere cosa raccontare e cosa no. La scrittura, infatti, muove il nostro sguardo e la penna veicola le immagini viste.

Partecipare alle Giornate Letterarie di Soletta è stata per me un’esperienza meravigliosa e ci tengo a ringraziare l’Università di Zurigo, in particolare Cristoph Steier e Philipp Theisohn, professori presso il Deutsches Seminar, e Tatiana Crivelli, professoressa presso il Romanisches Seminar, per avermi dato la possibilità di partecipare attivamente a questo evento letterario.
Concludo, condividendo un desiderio (o una promessa): tornare a Soletta e partecipare alla 42esima edizione!

 

Le parole in volo. Ein filmisches Portrait des Poeten Fabio Pusterla

Die Solothurner Literaturtage zeigen nicht nur geschriebene, sondern auch kinematographische Werke. So widmet der Regisseur Francesco Ferri dem Tessiner Poeten Fabio Pusterla und seinem Alltag den Dokumentarfilm „Libellula gentile: Fabio Pusterla, il lavoro del poeta“ (2018), eine Produktion von ventura film in Koproduktion mit RSI Radiotelevisione svizzera.

Le Giornate Letterarie di Soletta presentano non solo opere letterarie, ma anche opere cinematografiche. Il regista Francesco Ferri dedica a Fabio Pusterla, noto poeta ticinese, e alla sua quotidianità il documentario „Libellula gentile: Fabio Pusterla, il lavoro del poeta“ (2018) una produzione di ventura film in coproduzione con RSI Radiotelevisione svizzera.

Dem Publikum präsentiert sich ein intimes 73 minütiges Portrait von Fabio Pusterlas kreativem poetischen Schaffensprozess. Er hat als Dichter, Übersetzer und Essayist bereits ein beeindruckendes und vielfach prämiertes Œuvre geschaffen. Mit einer Kamera und einem Live-Mikrophon ausgestattet folgt der Regisseur dem Poeten, dessen unverfälschter Alltagsroutine er sich behutsam und respektvoll annähert.

Per 73 minuti il pubblico assiste al lavoro del poeta e al processo creativo della parola. La figura poliedrica di Pusterla – come poeta, traduttore e critico letterario – ha creato molteplici produzioni letterarie, il cui valore è stato riconosciuto da numerosissimi premi. A dirigere la camera c’è solo il regista e un fonico per l’audio in presa diretta: è questa la modalità con cui la cinepresa si avvicina il più possibile alla quotidianità del poeta, immortalandone l’autenticità, senza però essere invasiva.

Die Dokumentation bietet dem Publikum aber nicht etwa eine Selbstdarstellung des Poeten selber – nein – sie begleitet seine Suche nach einem authentischen sprachlichen Ausdruck. Diese Sprache ist es, womit Fabio Pusterla seit Jahren eine tiefgründige und innige Beziehung zu seinen Lesern und Leserinnen zu schaffen vermag. Das Schreiben einer solchen Sprache sei eine grausame und unbarmherzige Kunst, welche ihm viel abverlangen würde – vielleicht zu viel. Wer diesen Weg einschlägt, so sagt Fabio Pusterla, muss bereit sein, sich vielen Prüfungen zu stellen.

La cinepresa non restituisce la rappresentazione di un’immagine del poeta stesso, bensì documenta la sua ricerca per trovare un linguaggio autentico che gli permette, da anni, di instaurare un rapporto profondo e intimo con i lettori e le lettrici. Come dice Fabio Pusterla: „Il linguaggio artistico è crudele e impietoso: chiede molto, forse troppo. Chi si incammina su questo sentiero dovrà essere pronto ad affrontare molte prove.“

Francesco Ferri porträtiert einen Dichter, dessen Worte zwar auf Papier fixiert sind, aber in den Gedanken des Lesers und der Leserin wie eine Libelle weiterfliegen.

Francesco Ferri ha provato a fornire un ritratto di un poeta, le cui parole, pur essendo fissate sulla carta, continuano a volare nella mente del lettore e della lettrice, come una libellula.

 

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Jolanda Brennwald & Marica Iannuzzi

Intervista a Zerocalcare: tra parole e immagini

Michele Rech, in arte Zerocalcare: forse uno dei personaggi più attesi alle Giornate Letterarie di Soletta. Anche senza il forse.

Giovane fumettista italiano, nasce nel 1983 a Cortona, ma vive a Roma. Il suo talento è riconosciuto da numerosissimi premi e la sua notorietà si estende ben oltre i confini italiani. Lo stesso vale per il suo blog, su cui vengono pubblicati racconti brevi di natura autobiografica: https://www.zerocalcare.it/.

Il numero delle persone sedute nella Landhaussaal del Landhaus conferma le aspettative. Dopo la presentazione di Macerie prime – Sei mesi dopo (2018), graphic novel che fa seguito a Macerie prime (2017), Zerocalcare prende posto al tavolo degli autografi. Nessuno demorde: né le persone in fila in attesa di una dedica, né la mano dell’artista che ne confeziona una sempre personalizzata.

   
Il suo pennarello nero scorre su tutte le superficie che gli vengono sottoposte – pagine, borse, magliette – con tratto veloce e sicuro, per tre ore e mezzo, senza pausa.

Le domande che si potrebbero e si vorrebbero fare a Zerocalcare sono moltissime e diverse tra loro. Ma si scelgono due aspetti su cui concentrarsi: la lingua del fumetto e il rapporto tra l’immagine e la parola.

Come usi il dialetto e che ruolo ha nei tuoi fumetti? Hai già preso in considerazione l’idea di fare un fumetto solo in romanesco?

Alterno il dialetto all’italiano o in una stessa frase o in una didascalia in alto, come contrappunto al dialogo. A me interessa soprattutto lo switch tra l’italiano, quello definibile aulico, e l’italiano regionale, cioè il dialetto, romanesco nel mio caso. È proprio questa alternanza dei registri linguistici che permette di ottenere la comicità. La comicità, infatti, nasce proprio da questa opposizione linguistica. Fare un fumetto solo in dialetto, quindi, impedirebbe di ottenere, secondo me, questo effetto e farebbe sparire tutta la comicità.

Quale rapporto c’è per te e nei tuoi fumetti tra l’immagine e la parola? L’immagine traduce esattamente la parola, sottrae o aggiunge informazioni?

Partiamo dal fatto che anche le immagini, da sole, sanno raccontare una storia. Infatti, secondo me, un buon fumetto riesce ad essere letto e capito anche solo seguendo le immagini. Senza doverci pensare, mi sento di dire che la parola aggiunge informazioni, racconta sempre qualcosa in più. Non sono un virtuoso del disegno, ma posso dire che ho cura nelle recitazioni. I gesti, i movimenti del corpo – per esempio una mano che afferra un oggetto – le espressioni facciali dei personaggi, tutte cose queste, insomma, servono a far recitare i personaggi. Questa mia cura, cui tengo moltissimo, nella recitazione su carta si avvicina al modo di pensare e di fare del e nel cinema.

Visto che è emersa la parola „cinema“, la prossima domanda sorge spontanea. Nel 2017 è uscito il film La profezia dell’armadillo, tratto proprio dal tuo fumetto omonimo. Quale differenza c’è tra l’immagine su carta, apparentemente statica, dei tuoi fumetti e l’immagine dinamica e, soprattutto, cinematografica?

Sono due tipi diversi di immagini o, meglio, sono tipi di immagini con due visioni diverse. In ogni immagine c’è più di un punto di vista: dipende da chi scrive, da quale prospettiva si guarda, da quale angolazione è fatta l’inquadratura, da chi è la voce narrante, eccetera. La parola dei miei fumetti ha la mia visione, quella di Zerocalcare; la parola del film ha la visione di Emanuele Scaringi, il regista, che ha messo la sua visione sia sul piano narrativo, sia sul piano estetico. E va bene così, perché è lui il registra del film, io ho scritto solo la sceneggiatura. Ma se io facessi un cartone animato, sicuramente le immagini sarebbero più simili a me e alla mia voce.

La curiosità fa venire subito un’altra domanda legata all’esempio che hai fatto con il „se io facessi…“. Tra i tuoi progetti c’è anche quello di fare un film tutto tuo o un cartone animato?

Oh, hai voglia! (risponde in romanesco). Questo progetto c’è eccome, già da un po’ di tempo. Se tutto va bene, il cartone animato arriverà l’anno prossimo. I miei fumetti hanno sempre una colonna sonora, ma il cartone animato mi permetterebbe di inserire ancora più elementi: fare avvicinare, ancora di più, il mio punto di vista al pubblico e di dare la mia voce. Nel fumetto c’è spazio per l’interpretazione: il lettore, per esempio, può immaginare cosa succede tra una scena e l’altra, quali siano i passaggi, eccetera; nel cartone animato, invece, tutto è già fornito, da me. Sono molto curioso di vedere cosa uscirà e come verrà recepito dal pubblico.

Si ringrazia Michele Foschini, editore della BAO Publishing, e si fa un ringraziamento speciale a Zerocalcare per aver reso possibile questa intervista!

Da Leontica (Valle di Blenio) a Soletta

“Tu non senti mai la voglia di rimanere fuori al buio, da solo, nel silenzio?”

Con questa frase, secondo l’autore, si potrebbe riassumere La pozza del Felice (Rubettino 2018), il suo secondo romanzo.

Fabio Andina, classe 1972, nasce a Lugano, nel Canton Ticino. Nel 2016 pubblica Uscirne fuori, il suo primo romanzo, e riceve una menzione al Premio Chiara Inediti per la raccolta di racconti Il paese senza nome, con cui si guadagna l’inserimento nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiaro. Con questo romanzo, proprio nel 2019, si aggiudica il Premio Terra Nova della Fondazione svizzera Schiller.

Buio, solitudine, silenzio. Questi sono i tre elementi principali che caratterizzano il Felice, protagonista che, non a caso, compare nel titolo del romanzo. Ma non solo: queste sono anche le tre caratteristiche dello stile di vita dell’autore. Nel Felice c’è (in)volontariamente una parte di Fabio Andina e nel Felice c’è una parte di Anselmo, un uomo che è realmente esistito e che ha abitato a Leontica, in un piccolo paese in Val di Blenio, fino alla sua scomparsa, avvenuta quattro anni e mezzo fa, all’età di novant’anni. Andina conosce Anselmo da bambino, quando la sua famiglia decide di comprare una baita proprio a Leontica, che diventa la meta delle festività e delle vacanze. Il piccolo Fabio entra sempre più in confidenza con Anselmo e, diventato adulto, decide di andare ad abitare per un lasso di tempo proprio a Leontica. In paese si dice che Anselmo, ogni mattina, vada a fare il bagno in una pozza gelida, in cima alla montagna: al buio, da solo, in silenzio. Andina, durante i tre anni di soggiorno in valle, entra ancora di più nell’intimità e nella quotidianità di quest’uomo che tanto fa parlare la gente in paese, senza però mai chiedergli direttamente se la storia di lui e della sua pozza sia vera oppure no.
I personaggi del romanzo, tuttavia, non sono solo il protagonista e il co-protagonista narratore: anche la natura è un personaggio a tutti gli effetti. La pozza, in primis, ma anche il vecchio larice, l’instancabile mulo… tutto l’ambiente, letteralmente ‘ciò che ci circonda’, sottrae o dona cose di cui non ci si accorge più, „cose irrilevanti per altri, stupende per me“, commenta l’autore. Non ci si rende conto che, quotidianamente, si perde più tempo di quello che non si cerca di guadagnare, correndo tutto il giorno.
Il Felice manda un messaggio profetico per la società attuale: oggi, più di prima, è necessario rendersi conto che, a volte, fermarsi non è una perdita di tempo. Una vita frenetica ruba più tempo di una pausa. È necessario (re)imparare a prendersi del tempo, per stare al buio, da soli, in silenzio.

Il viaggio del Felice, iniziato nella Valle di Blenio, non si conclude a Soletta. La pozza del Felice, infatti, verrà tradotto in lingua tedesca e pubblicato dalla Rothpunkt Verlag di Zurigo nel marzo 2020.